IN MEMORIA DI LUCIANO DI PALMA
11/03/2016

Scrivo queste poche righe di ricordo su Luciano Di Palma faticando a trattenere il dispiacere e la commozione nonostante sapessi da tempo del male contro il quale combatteva e che alla fine ha avuto la meglio.
 
Luciano apparteneva a quella generazione di judoka che riportano alla memoria tempi che, con retorica, usiamo definire “eroici”.
 
La generazione che per tutti gli anni sessanta e metà dei settanta ha guidato il judo verso l’età adulta, quella delle prime medaglie olimpiche e di una nazionale che s’insediava stabilmente nell’élite del judo internazionale.
 
La generazione di Alfredo e Beppe Vismara, Tavolucci, Galimberti, Tommasi Beltracchini e naturalmente Nicola Tempesta che, smessi da poco i panni di atleta di punta del judo italiano, ne diventava allenatore.
 
Ho definito poco fa quei tempi “eroici” e non vorrei essere frainteso, non si trattava di judo pioneristico e ingenuo. Al contrario il judo di Luciano era straordinariamente moderno e tecnicamente completo. Oltretutto il numero di praticanti era a un apice che non si ripeterà poi, purtroppo, nei decenni successivi.
 
Luciano, poi, aveva un judo completo, forte in piedi, in particolar sulle gambe (combinava Ashi Guruma con uno splendido O Uchi Gari) e implacabile nel Ne Waza.
 
L’eroismo derivava semmai dal fatto che – tranne per l’eccezione di Tempesta – il judo italiano non aveva tradizione internazionale, per cui Luciano insieme ai Vismara dovette rimontare un gap del quale poi usufruì poi la generazione di Mariani e Gamba.
 
Luciano in questo fu uno dei primi a salire i podi dei tornei internazionali dopo molti anni di affermazione in Italia. Un percorso che culminò con la sfortunata partecipazione alle Olimpiadi di Monaco. Un’edizione dominata dai giapponesi ma che per l’Italia fu accompagnata dalle polemiche e dal clamore per la squalifica (ingiusta, è ancora oggi la mia opinione) di Beppe e Alfredo Vismara e Andrea Veronese. Ne fecero le spese Di Palma e Tommasi che ebbero poco tempo per prepararsi.
 
Dopo le Olimpiadi Luciano si aspettava una chiamata dalla nazionale per un ruolo tecnico che sembrava naturale. La chiamata non arrivò (non aveva certo un rapporto facile con la Federazione anche per il suo carattere sincero e caustico) e fu per questo che io stesso ritenni di chiedergli di affiancarmi nel tentare di far crescere Felice Mariani, mio figlio Silvio e gli altri ragazzi del club soprattutto per la sua conoscenza del judo internazionale.
 
E’ stata l’ultima esperienza di Luciano con il Judo e con un ambiente che allora come oggi fatica a costruire un rapporto con le proprie radici e con la propria storia.
 
Addio Luciano grande uomo e grandissimo judoka. Che la terra ti sia lieve.
 
Alberto Di Francia

 

 

FIGLI FIGLIASTRI e cattivi maestri!?
23/06/2015

Recentemente, in una finale nazionale, un atleta della nostra Associazione, sbagliando, ma ritenendosi danneggiato da una decisione arbitrale, è sceso dal tatami non aspettando il verdetto dell’arbitro e non  salutando, così recita l’immancabile deferimento al Giudice Sportivo. Ho molto apprezzato l’atteggiamento dei responsabili della nostra Associazione che hanno tentato di dissuadere l’atleta da un simile atteggiamento e che si sono scusati con il giudice di gara. 

La nostra decisione di punire l’atleta con due mesi di sospensione dall’attività fa il paio con la sentenza del Giudice Sportivo che ha inflitto due mesi di squalifica al nostro atleta.

Fin qui tutto regolare,  l’esempio che abbiamo dato spero sia recepito da tutti i nostri atleti, ma, purtroppo c’è un ma, in una finale Nazionale si è visto di peggio, (molto peggio)Un atleta, dopo il verdetto,  ha preso a calci i tabelloni  insultando l’arbitro, ma quel che  è ancora più grave è  l’atteggiamento dei tecnici dell’atleta che, anziché richiamarlo, hanno anche loro insultato dando in escandescenze supportati dai loro iscritti sulle tribune.

Nella stessa gara, un altro tecnico, ritenendosi danneggiato dal verdetto arbitrale è saltato giù dalle tribune dando in escandescenze.  Nella sentenza del giudice sportivo c’è stato un richiamo a questo tecnico mentre non vi è traccia di deferimento per il primo caso, la giustificazione sembra essere che sia l’atleta che i tecnici dopo, “sembra”, abbiano chiesto scusa.

La domanda è d’obbligo, basta chiedere scusa dopo un atteggiamento di una violenza inaudita?  Basta chiedere scusa dopo che i tecnici hanno dato un simile insegnamento ai propri allievi che di conseguenza, come è già successo, si comporteranno nella maniera come si è comportato il loro insegnante? Non voglio chiamarlo maestro.

Penso che un insegnante di Judo, ma non solo di Judo,  abbia il  compito da maestro, quello di colui che non deve limitarsi ad insegnare tecniche di combattimento,  ma deve anche insegnare il comportamento la disciplina e il rispetto delle regole.  Penso che un arbitro può sbagliare in buona fede  ma un tecnico che sbaglia vuol dire che non ha capito nulla della nostra filosofia ed è pericoloso per tutto il movimento ma anche per i ragazzi che gli sono affidati.

Dopo lo sport, dopo le gare c’è la vita e questa non fa sconti a chi non si sa comportare, la scuola, il lavoro, la vicinanza con le altre persone tutto tiene conto del  comportamento e alla fine gli errori si pagano.

Io penso che l’atteggiamento giusto dei sopra citati tecnici sia quello di chiedere scusa ai genitori del ragazzo per il cattivo esempio che è stato a lui dato,  ma questo  comporta  una  umiltà che non credo sia nelle loro corde.

In ultima analisi, io penso,  che ci sia un comportamento non adeguato anche degli organi Federali che hanno punito (giustamente) prima, poco in un altro caso e infine non hanno preso nessun provvedimento e quindi ci sono oltre che cattivi maestri,  (FIGLI E FIGLIASTRI).

IL RONIN

A.D.F.

 

 

LETTERA APERTA
20/03/2015

Ho visto negli ultimi tempi, sui social network, sui blog, per lo più in forma anonima, comparire attacchi e insinuazioni sul lavoro e – cosa davvero sgradevole- sulla persona di Franco Capelletti.

Per questo mi è venuto l’impulso di scrivere e lasciare la mia testimonianza. Non per una difesa d’ufficio (non faccio l’avvocato difensore e Franco è in grado di farlo benissimo da solo), né per questioni “politiche”, che alla mia età sono fuori dal mio orizzonte. Ho avvertito, pittosto, l’esigenza di proporre considerazioni che vengono da lontano fino ai giorni nostri e, soprattutto per una questione di metodo che riguarda le relazioni che debbono improntare i nostri rapporti e il modo di discutere e confrontarci sulla nostra disciplina e su ciò che occorre per preservarla e rilanciarla.

Se al posto della passione (anche animata e animosa) e del reciproco rispetto si introduce il virus dell’insinuazione, della denigrazione personale, il judo vivrà tempi grami e un futuro nebuloso. C’è infine una questione di memoria: di ciò che eravamo e ciò che siamo. Di ricordare quando faticavamo a trovare un dojo dove poter praticare, di quando ci accontentavamo di partecipare alle competizioni internazionali e esultavamo al passaggio del primo o secondo turno. Di quando i viaggi erano lunghi e faticosi da una città all’altra, negli intercity che facevano cento fermate e dove si passava la notte per risparmiare i soldi della trasferta. Negare la memoria di ciò significa recidere le nostre radici, e, dunque, dimenticare la passione che ha animato tanti e ancora tanti di noi, senza la quale oggi non saremmo qui.

Franco Capelletti ancora me lo ricordo al tempo del primo incarico di Direttore Tecnico. Era il tempo nel quale aveva creato a Brescia, in una piccola provincia, un gruppo straordinario di giovani atleti destinati a competere, prima in Italia e poi all’estero, in alternativa ai gruppi militari che andavano per la maggiore. Era la “Forza e Costanza” di Ezio Gamba, ma non solo. Fu quell’esempio a motivare tanti di noi a Roma a fare altrettanto: con Ornello Vignola, Alfredo Monti, Nando Tavolucci e tanti ancora. E così anche a Napoli, Milano, Monza, Torino, Trieste e Messina.

E’ per questo che non provammo invidia, ma anzi sollievo, quando l’avvocato Ceracchini gli conferì l’incarico di Direttore Tecnico per risollevare un settore tecnico allo sbando nel quale si trovava ai tempi della vecchia Presidenza di Zanelli. Un’ottima persona che aveva il torto di considerare quel ruolo un compito marginale facendo a tempo pieno il Sindaco di una città ligure.

Accadde così che i vertici del settore Judo decisero di rimuovere tutto il vecchio staff e vedere se era il caso di proporre qualcosa di nuovo. 

In quel periodo si approssimavano le Olimpiadi di Mosca e già si paventava il boicottaggio di tutti i paesi dell’area Nato verso la manifestazione dell’Unione Sovietica. 

Tutti i gruppi militari ebbero l’ordine dal Governo Italiano di non partecipare con i loro atleti alla competizione, ordine dato dallo stesso Governo Nazionale. 

Ovviamente questo chiudeva in maniera totale la possibilità di partecipazione della maggior parte degli atleti alle competizioni al contrario del CONI che si decise per la partecipazione degli atleti civili.

Un dramma per i nostri atleti, tutti militari: Mariani, delle Fiamme Gialle, fresco Campione Europeo e bronzo a Montreal, Gamba e Rosati dei Carabinieri, Vecchi e Daminelli ancora delle Fiamme Gialle.

Fu così che Capelletti convinse Gamba a rassegnare le dimissioni dal gruppo militare e assicurarsi la partecipazione di Mosca ’80.

Da quella decisione scaturì l’oro di Ezio e fu il trionfo per tutto il movimento Judoistico Italiano. Anche nella successiva Olimpiade quella di Los Angeles ’84 Gamba conquistò la medaglia d’argento. Sono gli anni che vedono poi affermarsi la figura di Matteo Pellicone, che, pur provenendo dalla lotta, intuisce le potenzialità del judo non solo all’interno della Federazione ma nei confronti dell’intero movimento olimpico italiano.

Non nego che quel successo aprì a Franco la possibilità di emergere sia in campo Nazionale che in quello Internazionale.

In campo internazionale Capelletti ha ricoperto l’incarico di Vicepresidente dell’Unione Europea di Judo. Egli è stato inserito dal Presidente Vizer nel gruppo dei “famosi” il Kodokan di Tokio gli ha riconosciuto il 9° dan. E’ in questa veste che ha acquisito autorevolezza e stima da parte degli altri partner internazionali, un patrimonio che si è rivelato utile per tutto il nostro movimento e che ci ha tolto da quella situazione di provincialismo e di separazione dal quale eravamo partiti.

Oggi Franco è Vicepresidente federale. Si è assunto l’onere e la responsabilità di guidare la difficile transizione seguita alla scomparsa di Matteo Pellicone. Conoscendolo so quanto ne avrebbe fatto a meno. Per lui la scomparsa di Matteo è stato un dramma nel dramma. Ma so anche quanto fosse preoccupato che in un momento così difficile si aprisse una stagione di competizione politica, di rivalità personali e d’incertezza sul futuro.

In fondo avrebbe potuto starsene tranquillo nell’alveo delle istituzioni internazionali dove è oramai conosciuto e riconosciuto, e lasciare il movimento italiano al proprio destino. 

Per questo mi amareggiano gli attacchi di questi mesi, perché contraddicono una vecchia massima di tanti di noi, secondo la quale solo “chi non fa, non sbaglia”.

Con Franco si può anche non essere d’accordo, so che non pretende l’aura dell’infallibilità, e che per questo è disposto ad ascoltare e discutere, provare a convincerti e ad essere convinto. A patto del riconoscimento della reciproca buona fede. E della passione per il judo. Senza le quali non c’è memoria e neanche speranza per il futuro.

Alberto Di Francia

PS: queste considerazioni sono ovviamente personali e scritte di getto, senza averne discusso con nessuno. Tantomeno con Franco Capelletti che, sono sicuro, mi avrebbe detto di lasciar perdere.

 

 

A CHE (CHI) SERVONO QUESTI QUATTRINI?
19/12/2014

Mi voglio soffermare sui corsi (obbligatori) per insegnanti di Judo  che i vari comitati regionali devono ogni anno proporre ai tecnici delle proprie regioni, corsi che dovrebbero migliorare l’aspetto tecnico o quanto meno coprire alcune lacune che nella carriera degli aspiranti allenatori sono inevitabili vista la pochezza dei corsi per l’attribuzione della qualifica.

Non sono contrario per principio a che i comitati organizzino questi raduni presso villaggi turistici oppure presso zone di villeggiatura, purché non si snaturi lo scopo stesso degli aggiornamenti e non si pensi solo a fare “cassa”.

Io penso che per rendere gli aggiornamenti tecnici veramente utili non si può lasciare ai Comitati Regionali l’onere di organizzarli solo per la propria regione ma si deve lasciare liberi i partecipanti a scegliere dove andare  in base alle proprie esigenze e disponibilità oltre al contenuto tecnico, nascerebbe così una competizione tra regioni a chi riesce a far meglio e a prezzi convenienti.

Recentemente in un corso di recupero nel Lazio si sono visti centinaia di tecnici intorno ad un tatami assolutamente inadeguato, ovviamente disinteressati e richiamati all’ordine dal docente “dalla docente” a suon di fischi “alla pecorara” e il vicepresidente del settore Judo, (non riesco ancora a capire perché egli ancora si ostini ad autoproclamarsi presidente di settore carica che non gli è riconosciuta da nessun regolamento), disinteressarsi del caos, inevitabile visto l’alto numero dei partecipanti e l’inadeguatezza del tatami, penso che sia per il fatto che tanto l’incasso era di già stato ottenuto.


Tutto questo dimostra quanto importi ai vertici del settore Judo del Lazio dello sviluppo tecnico e del miglioramento della disciplina.

Io penso che la Federazione dovrebbe costituire una commissione (io vorrei farne parte, gratuitamente,) che valuti prima di dare il proprio OK. I programmi di tutte le regioni e il sistema organizzativo otterrebbero così, e sarebbe un bene, di avere sia un miglioramento tecnico e sia un interesse partecipativo. Ho interpellato i  tecnici della nostra Associazione nonché della scuola del settore Judo che hanno partecipato al suddetto raduno (obbligatorio) e mi hanno chiesto di rivolgere un appello al Presidente del Comitato Regionale affinché questo stato di cose venga a cessare e affinché sia presa in seria considerazione una opportunità di crescita che fino ad oggi è venuta a mancare.

M° Alberto di Francia.

7° dan di Judo

Maestro benemerito

Medaglia d’onore al merito sportivo

Stella CONI  al merito sportivo

Azzurro di Judo

Membro d’onore della FIJLKAM riconoscimento ottenuto per acclamazione nella Assemblea Nazionale della FIJLKAM.

 

 

ABBIAMO PUNITO IL JUDO
12/12/2014

Finalmente ci siamo riusciti c’è ne è voluto di tempo ma alla fine ce l’abbiamo fatta. Il Judo è stato punito, smembrato svuotato di tutti i suoi contenuti tradizionali, tecnici, ideologici e quant’altro ognuno di noi per decenni ha cercato in esso.

C’è voluta l’unione di tantissimi cervelloni delle varie sigle UEJ, WJA, AJA, AJC.  (cancellate quelle sigle che non c’entrano) ecc. ecc. per farcela ma alla fine è andato tutto in porto dicevano: “Per renderlo più spettacolare, più televisivo.” Francamente non ho mai visto niente di meno spettacolare e “televisivo” di quanto accade sui tatami di tutto il mondo. Fortunatamente di volta in volta qualche vero judoka ci offre sprazzi di bel Judo adattandosi ai cervellotici regolamenti messi in atto dalle sunnominate sigle il che dimostra che anche se sopito, maltrattato e relegato a spettacolo televisivo e, anche se punito, il Judo non è morto.

Quello che colpisce sfavorevolmente è l’assoluta insipienza e accondiscendenza delle Federazioni Nazionali di tutto il mondo che hanno accettato supinamente quanto veniva propinato senza badare ai guai irreparabili che si venivano a creare.

Quando si parla delle Federazioni Nazionali e anche quelle internazionali si parla di persone, persone che, credo, abbiano praticato il Judo e che per il livello raggiunto siano state scelte per guidare i movimenti nazionali e internazionali. Allora come è possibile che tali persone sono rimaste indifferenti a quanto accadeva? Quali interessi hanno perseguito?. Quello che mi ha colpito sfavorevolmente è l’assordante silenzio della Federazione giapponese e del Kodokan che avrebbero dovuto, a  parer mio,  essere i depositari del Judo tradizionale e che, sempre a parer mio, avrebbero dovuto “e potuto” con più forza difendere la magnifica opere del prof. Jigoro Kano (pace all’anima sua) e difendere una tradizione in tutta la sua interezza.

Penso che la Federazione Giapponese avrebbe dovuto ritirare tutti i suoi atleti dalle competizioni e che, per protesta, tutti i membri del Kodokan e della Federazione Judo Giapponese  avrebbero dovuto dimettersi dagli organismi internazionali.

Ma voglio fare un passo indietro ricordando con nostalgia quello che per anni è stato il Judo anche in Italia. Forse è vero si vincevano meno medaglie ma, vivaddio, i combattimenti di atleti come i vari Tempesta, Venturelli, Fiocchi, Peloso, Monti, Tavolucci, Di Palma, Beltracchini, Croceri, Galimberti e mi fermo qui per non fare torto ai tantissimi dei quali conosco perfettamente i nomi e ricordo che i loro incontri, erano uno spettacolo che non ci si stancava mai di guardare. Forse anche allora per i profani vi erano elementi di incomprensione ma aggiungo che per i profani anche ora è tutto incomprensibile.  Oggi quando si va alle gare si guarda solo l’atleta che ci interessa e si sorvola su tutto il resto della competizione.

L’obiezione che più ricorre è quella, come giustificazione di quanto è stato fatto,  che la china che si stava percorrendo era quella del non Judo messa in essere dai Judoka russi che avevano adattato  una loro lotta nazionale  alla disciplina del Judo.  Forse questo è vero e allora perché invece di punire il non Judo dei russi si è punito il Judo? Forse perché non si è creata una classe arbitrale in grado, essendo loro dei veri Judoka, di giudicare e porre rimedio ogni volta sanzionando l’eccessiva propensione delle prese alle gambe con quelle vere del go-kio che permette tecniche  come Kataguruma ecc. ecc. sanzionando le posizioni estremamente piegate con le mani che cercano solo la presa alle gambe? La scelta di questi arbitri doveva ricadere solo su quanti hanno praticato “veramente” il Judo conoscendo tutti gli aspetti del combattimento e non quegli arbitri che personalmente non ho mai visto su un tatami disputare neanche un randori o versare una stilla di sudore in allenamento? Inevitabilmente questi signori si limiteranno ad interpretare il loro ruolo come semplici “notai.”

Giunti a questo punto è normale chiedersi che cosa fare.

Non l’ho so, non riesco a pensare ad altro provvedimento che è quello di tornare radicalmente indietro e riscrivere quello pagine dimenticate, purtroppo anche da tantissimi Maestri, che ci potranno far tornare a quell’arte Marziale che abbiamo tanto amato.

Forse, in uno scatto di orgoglio, il Kodokan potrebbe e dovrebbe organizzare manifestazioni internazionali di Judo tradizionale ma dubito che questo possa accadere. 

In conclusione voglio dedicare queste mie, forse cervellotiche, riflessioni a due grandi Judoka uno purtroppo scomparso l’amico e Maestro Cesare Barioli che per la ricerca del Judo ha molto scritto e al Maestro Nicola Tempesta dal quale ho molto imparato.

Alberto Di Francia Judoka

 

 

LA FIDUCIA
04/12/2014

fidùcia [fi’duʧ] 
s.f
 sentimento di sicurezza che deriva dal confidare senza riserve in qualcuno o qualcosa.
Dal vocabolario Italiano.

Che cosa è la fiducia? Chi ha fiducia? Chi non si fida? 
Volendo analizzare queste tre piccole frasi e per farlo senza incorrere in errori occorre risalire alla personalità delle persone che devono o almeno dovrebbero ricorrere alla fiducia o avere fiducia.
Molto spesso si ricorre alla fiducia (come in politica) e lo si fa per obbligare le persone a votare un provvedimento o accettarne uno per non perdere lo status quo. Non vi è dubbio che è un sistema che forza la coscienza degli individui né annulla le convinzioni personali. 
La fiducia è un’altra cosa, essa fa capo alla personalità della gente e né fa distinguere la nobiltà d’animo la propensione ad amare il prossimo al di la di ogni interesse. Gesù, pur sapendo, era estremamente pervaso di fiducia anche verso chi lo avrebbe tradito.
Chi ha fiducia vive serenamente senza aspettarsi i colpi che la vita, a volte, ci infligge ma anche in questo caso la serenità della vita è premio a se stessa.
Chi non si fida ha l’animo sempre esacerbato pervaso di sospetti e guarda al prossimo come un nemico pronto a colpire e quindi se può colpisce per primo.
Il sospettoso ha un fondo di cattiveria ingiustificato non supportato da fatti concreti.
Recentemente ho sentito dire a un nostro amico: “non ti fidare” Io penso che con questo suggerimento si è voluto istillare nell’animo di una persona un malessere ingiustificato non supportato da fatti concreti,  una paura senza riscontri oggettivi.
Io per moltissimi (troppi) anni ho avuto fiducia in una persona, sorvolando ai tantissimi fatti che  mi avrebbero dovuto mettere in guardia sugli aspetti negativi che questa persona aveva, sia nei miei confronti e sia nei riguardi della nostra attività, ma non mi pento per la fiducia che ho avuto, solo mi ha amareggiato il tradimento inaspettato e gratuito.
Che cosa dovrei fare ora? Dovrei modificare il modo di essere e quindi passare il resto della mia vita nel sospetto verso il prossimo? Non intendo assolutamente vivere in questa maniera io penso che il prossimo è come io lo voglio e come io lo tratto.
Uno stato d’animo sereno ci permette di relazionarci con tutti stimando ed essere stimati. Chi non riesce a vivere in questa maniera deve guardare dentro se stesso.

Alberto Di Francia

 

 

SCUOLA DI JUDO O PALESTRA DI JUDO
21/10/2014

Un giorno mentre facevo segreteria nella nostra Associazione si affaccia una signora e mi chiede quali sport si praticano nella nostra palestra e cosa potevamo proporre per il proprio figliolo.

Essendo la nostra una polisportiva ho illustrato tutte le attività fornendo informazioni sulle discipline e sui costi e alla domanda se il Judo è lo sport di base della nostra Associazione la informavo cortesemente che la nostra non era una palestra di Judo ma una scuola di Judo. Logica la domanda della signora: “Quale è la differenza tra una palestra e una scuola?”.

Ebbene mi sono posto la stessa domanda e riflettendo su quanto facciamo ho dedotto che senz’altro la nostra era una scuola dove la pratica del Judo non è finalizzata alla pura disciplina agonistica ma indicando il senso della “VIA” prendiamo in considerazione tutte le sfaccettature dell’insegnamento (la socializzazione, il comportamento, il rispetto, la tolleranza, le premura sulla sicurezza del partner e tutte le indicazioni che Jigoro Kano intendeva con l’aforisma come “amicizia e mutua prosperità”.

Sia ben chiaro, non abbiamo nulla contro la pratica agonistica, ma questa non può prescindere dalla domanda “da dove veniamo e dove vogliamo andare?” La pratica dello shiai è una parte della conoscenza del Judo e neanche la più importante quando si parla di conoscenza si deve intendere la completezza dell’insegnamento di Kano.  Nella scuola dove ho iniziato la pratica del Judo sul muro appariva grande un cartello con la scritta “Vinci senza presunzione e perdi senza amarezza”.

Chi ha avuto la fortuna di apprendere il Judo da un maestro che non si è limitato a insegnare tecniche da combattimento ma che ha approfondito tutti i concetti filosofici e di vita che la disciplina comporta, ha continuato la pratica del Judo ben oltre l’età delle gare e dell’agonismo.

Recentemente ho partecipato a un seminario con dibattito per  la presentazione di un libro “JUDO Educazione e Società”* del Prof. Giuseppe Tribuzio, ebbene non mi sono trovato d’accordo su tutto quello che ha detto, ma ho trovato giusta la sua osservazione “non importa se non siamo d’accordo su tutto quello che dico, ma è importante che si vada nella stessa direzione”.

Ebbene quale è la “VIA” della conoscenza e della giusta pratica? Non certo la gara per la medaglia o per il “punticino” Federale o per il prestigio di questo o di quel Maestro quando per questi obiettivi si arriva a rubare atleti ad altre associazioni, si insegna a odiare gli avversari e ci si accontenta di vittorie ottenute frodando con combattimenti vinti  senza alcun merito.

Il Maestro, l’insegnante,  l’educatore deve, fin dal primo giorno di pratica, mostrare con l’esempio quale deve essere il comportamento da tenere nel dojo, sul tatami  perché  questo comportamento debba essere poi trasportato nel quotidiano vuoi nella pratica sportiva vuoi nella vita, nella scuola, sul lavoro e in tutte le vicissitudini che la l’esistenza ci impone.

I modelli educativi dovrebbero essere patrimonio non solo del Judo ma anche di tutte le discipline sportive, troppo spesso deviate da cattivi modelli, da comportamenti scorretti da coloro che per scelta si dedicano alla sport come professionisti o anche semplicemente come tifosi.

Dopo tanti anni di insegnamento al termine della presentazione del libro, mi sono chiesto se sono stato un buon maestro o semplicemente un insegnante di tecniche judoistiche, ma se così fosse e chiedendo scusa ai tantissimi allievi che ho avuto e per dirla con un vecchio maestro della RAI maestro Manzi: “non è mai troppo tardi”.

a.d.f.

*LUNI EDITRICE

 

 

ARRIVEDERCI MATTEO?
11/12/2013

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Ogni volta che un parente o una persona amica ci lascia mi interrogo sul mistero della vita e della morte. Purtroppo non possedendo, io, il dono assoluto della Fede, la scomparsa delle persone che  ho amato o stimato o comunque conosciute lascia dentro di me una incertezza un vuoto che si rinnova ogni volta.

Matteo Pellicone è stato per me un punto di riferimento, un amico, un consigliere disinteressato. Egli mi ha onorato della sua amicizia. Quando nelle vicissitudini, non sempre positive, che la permanenza nella Federazione mi arrecava avevo una persona con la quale sfogarmi e che sempre, dico sempre, mi riconciliava con un mondo con il quale non sempre mi ritrovo e mi riconosco.

Ora di Matteo posso ricordare la sua grande forza d’animo, il suo coraggio in un momento che per chiunque di noi è e rimarrà un momento difficile della nostra vita.

In questo momento mi piace pensare che, forse, esiste un  mondo dove le persone giuste come Matteo e come tanti altri con i quali ho passato gran parte della mia vita in un mondo difficile fatto, anche di meschinità e invidie, dove ritrovarsi con lo spirito giusto con il buonumore e l’ironia che erano la dote principale di Matteo Pellicone.

Grazie Matteo ora so  e mi accorgo di cosa sei stato per tutti noi, di quanto eri necessario e  quanto hai  dedicata in ogni istante alla crescita della Federazione.

Forse per questo, che è comunque un momento triste, mi piace dire “ARRIVEDERCI MATTEO ARRIVEDERCI PRESIDENTE” ?. 

Alberto Di Francia

 

 

LE STRADE PER L’INFERNO
21/11/2013

Di solito, di fronte a cambiamenti regolamentari che hanno come motivazione quella  di favorire il ritorno ad un judo più bello e più conforme a quello delle origini (quello, per intenderci, che una volta si definiva Kodokan Judo) cerco di avere un pregiudizio genericamente favorevole, prima di esprimermi.
E’ stato questo il caso della direttiva, emanata da WJF e UEJ, che sanzionando le tecniche con prese alle gambe, intendeva promuovere un Judo meno statico e favorire un ritorno a tecniche che potremmo definire più “classiche”.
Pur nutrendo qualche diffidenza ho preferito aspettare l’applicazione delle nuove regole prima di pronunciarmi.
Debbo constatare, purtroppo, che come tutte le regole astratte, la loro applicazione concreta –ovvero tradotta in gestione arbitrale – ha finito, paradossalmente, nel risolversi nell’esatto contrario.
Capita così di assistere a decisioni che finiscono per sanzionare anche il minimo sfioramento della gamba e, dunque, ad un aumento di interventismo arbitrale a danno dei contenuti tecnici reali.
Questo perché le nuove regole hanno omesso di suggerire una diversa considerazione della volontarietà dell’azione.
Tori attacca; nello svolgimento dell’azione un braccio (o addirittura un gomito, è capitato anche questo) tocca la gamba di uke; l’arbitro interviene e sanziona.
Il contrario di quanto avviene persino nel calcio, dove la volontarietà del fallo di mano conta e come! Questo nel Judo non esiste, basta un semplice contatto per instaurare una sorta di cortocircuito da punire con la massima severità. 
Tralascio lo sbigottimento di atleti costretti a subire sanzioni che appaiono prive di fondamento e che comunque non permette riparo e riparazione (come ci si allena a non cadere nella casualità di un contatto involontario?).
Penso che i nostri dirigenti arbitrali potrebbero iniziare a premere sugli organismi internazionali per un ripensamento che non ci faccia pensare a quel vecchio proverbio per il quale le strade dell’inferno sono di solito lastricate di buone intenzioni.
Il 
Ronin.

a.d.f.

 

 

CINTURE BIANCHE GIALLA ARANCIONI VERDI BLU MARRONI NERE e “GRIGIE”
12/12/2012

Da sempre, dal  primo giorno che ho incominciato la pratica del Judo, ho sempre vissuto il passaggio di grado delle cinture come una cosa seria vale a dire come quel  momento che certifica il grado di apprendimento raggiunto. Il  maestro ci raccomandava di seguire e richiedere sempre l’aiuto del compagno che ci precedeva nell’attività anche se superiore di un solo grado (amicizia e mutua prosperità per l’appunto.) Ogni passaggio di grado era preceduto da un serio esame e ci si preparava seriamente non solo per non essere bocciati ma soprattutto per avere la consapevolezza di essere meritevoli del grado da raggiungere.
Questo sistema di pura meritocrazia stimolava il nostro orgoglio ci faceva amare la disciplina che sentivamo nostra in ogni sua parte e ci permetteva di comprendere l’importanza del colore della cintura.
Si guardava sempre con ammirazione e spirito di emulazione coloro che raggiungevano il grado di cintura nera. Già da allora la cintura nera, non importa il dan, veniva chiamato maestro perchè avevamo la consapevolezza che il suo sapere,  il suo insegnamento era quello giusto. 
La cintura nera era l’obiettivo.
La concessione non gratuita (perche si deve fare cassa) e immeritata della cintura nera e dei successivi dan è e rimarrà sempre un grave errore, chi la da la usa spesso come merce di scambio tradendo cosi lo spirito del Judo, chi la riceve non cercherà di migliorarsi consapevole che il percorso progressivo non è stato rispettato, non quello tecnico, non quello agonistico, lo spirito del Judo viene mortificato e l’acquisizione della cintura nera ne esce degradata e a chi la riceve, mancherà irrimediabilmente l’autostima.
Il percorso che ne consegue sarà sempre irto di difficoltà, non avrà sufficiente conoscenza sia per entrare nei ruoli arbitrali sia in quelli di insegnante tecnico.
La cintura  che gli compete non è  quella di vari colori ma solo e unicamente quella “GRIGIA”. Mi chiedo spesso cosa riuscirà a trasmettere.
Spesso si concede la cintura nera “MOTU PROPRIO”  a personalità che in qualche modo hanno reso importanti servizi alla Federazione e al movimento Judoistico ma questo e un caso del tutto diverso, anzi dimostra l’importanza stessa della cintura nera che in questo caso è una onorificenza.

IL RONIN A.D.F.

 

UOMINI E TOPI

7/12/2012

 
Parafrasando il titolo dal noto romanzo di John Steinbeck, intendo sottolineare qual che distingue l’uomo dal topo. Non che il topo non sia da rispettare,. Nella concezione Buddista qualsiasi essere vivente dall’uomo al più insignificante insetto ha diritto alla vita e al rispetto della sua esistenza, ma io qui intendo come topo l’uomo/topo quell’essere che come il topo non ha un concetto coraggioso della vita ma solo il concetto della sopravvivenza, sopravvivenza soprattutto, sopravvivenza ad ogni costo.

L’uomo ha nell’intelligenza e nel sentimento tutte quelle doti che ne fanno il primo, e non unico, figlio di Dio e dell’universo che lo circonda. Esso è uscito dalla condizione animale a quella di essere pensante, esso è  l’unico essere vivente che fuori dall’istinto è protagonista della propria esistenza, esso è in grado di decidere per il proprio futuro e sopra ogni cosa è il coraggio ragionato che ne fa il costruttore del proprio futuro. L’uomo ha nella solidarietà per gli altri quello stimolo che gli permette di avere sempre il concetto di quello che è giusto da quello che non lo è.

L’uomo, quello con la schiena dritta, ha come primo dovere il rispetto di se stesso per avere il rispetto di tutto il resto della sua comunità.

L’uomo/topo vive sempre e quasi sempre e quasi sempre soccombe come subalterno al resto della società. Esso approfitta sempre delle occasioni favorevoli per la propria esistenza e carriera guardando ogni simile come un possibile rivale e quindi un pericolo per il suo status quo. La paura è il sentimento che lo accompagnerà  per tutta la sua esistenza e guarda con accortezza ad ogni possibile cambiamento che  costituisca una qualche incertezza pronto ad “abbandonare la nave” quando questa è in pericolo.

L’uomo/topo non ha nessun concetto di solidarietà di amicizia, di civile convivenza e di giustizia, la sua unica, vera abilità è quella di sapersi mimetizzare.

L’uomo/topo è nella scala sociale all’ultimo gradino.

Allora cosa unisce il topo con l’uomo/topo? La risposta è semplice la paura. Il Manzoni fa dire a don Abbondio:”Il coraggio se uno non c’è la non se lo può dare.” Verissimo la paura ha da sempre ha accompagnato l’uomo, quello vero, dalla nascita alla morte ma la sua vera forza è la vittoria sulla paura.

IL RONIN

Alberto Di Francia

 
 
 
Nel precedente articolo avevo parlato dei doveri e del ruolo degli arbitri. Credo di aver suscitato qualche interesse e mi permetto, quindi, di soffermarmi sul ruolo dei Comitati Regionali, croce e delizia per chiunque nutra passione per il judo e intenda svolgerlo in una realtà organizzata, oltre che ordinata.

 

Il Presidente del Comitato regionale.

Il Presidente di un Comitato Regionale ha il compito più delicato di tutta la struttura periferica  perché oltre a dover vigilare e quindi dare il proprio parere di assenso o dissenso sulle nomine proposte dal vicepresidente sugli organi tecnici che entrano a far parte della struttura tecnica organizzativa del settore,  ha il compito di vigilare sul comportamento di tutti i membri del comitato nei confronti dell’Associazione di cui fanno parte e quindi dei dirigenti dei tecnici e degli atleti.

Chiaramente tale compito prevede che non ci sia nessuna anomalia o “conflitto di interessi” (termine ormai abusato in politica) tra i dirigenti e le società di appartenenza.

Esso deve ricordare che essere il presidente di un Comitato Regionale comporta il dovere di essere il presidente di tutti nessuno escluso.

La parte “morale” di questi compiti è la più importante e delicata, perché salvaguarda tutti gli appartenenti da possibili conflitti tra dirigenti di settore o tra dirigenti e base. Spesso un buon dirigente utilizza la ‘moral suasion’, più che la lettera del regolamento per attenuare conflitti, riportare concordia, indirizzare tutti gli attori del movimento verso gli obiettivi comuni. Ciò non significa passare sopra i regolamenti; anzi, proprio il ruolo di garanzia che è stato assegnato dallo statuto federale ai presidenti fa di essi i garanti delle regole e del loro rispetto.

Il Presidente di  un Comitato Regionale non può e non deve, quindi, essere relegato al semplice ruolo di passacarte o di personalità delegata alle premiazioni.

Il Presidente di un Comitato Regionale vigila che di quando in quando venga convocata una riunione delle Associazioni di ciascun settore per ascoltarne i pareri e le proposte.

Il Vicepresidente

Metto in rilievo il titolo di vicepresidente di settore perché qualche vicepresidente ignora o finge di ignorare che la qualifica che gli compete è quella di vicepresidente e non quella di presidente di settore.

Le opportunità che sono nelle mani dei “vicepresidente” sono infinite perché oltre alla ordinaria amministrazione, vedi l’organizzazione delle qualificazioni per le finali dei campionati nazionali, questi è chiamato a organizzare la vita sportiva di una intera regione e quindi miglioramenti tecnici, organizzativi e di una  convivenza sportiva tra le Associazione che ne fanno parte e il comitato stesso.

Un vicepresidente di Comitato Regionale ha il dovere di essere “super partes” nei confronti di tutto il movimento.

Comprendo che fin qui quello che ho descritto sembra essere il normale statuto di cosa dovrebbero essere i nostri organismi periferici. Sottolineo il termine normale, in contrapposizione all’eccezionalità dei tempi che viviamo.

Sono tempi di crisi economica che hanno investito tutti i settori dello Sport italiano e, dunque, delle sue istituzioni. I tagli economici si fanno sentire e hanno costretto l’intero movimento sportivo italiano a farci i conti. Come in una piramide, i tagli partono dall’alto, vanno verso il basso e tornano fatalmente su.

Riduzioni di personale, tagli ai budget delle nazionali, meno occasioni e vetrine per farsi conoscere, meno sponsor. A questi fanno da riscontro, verso il basso, diminuzione di tesserati, società anche antiche che chiudono i battenti o che preferiscono attrezzarsi alle vacche magre riducendo la partecipazione accontentandosi di un’attività marginale. Accade nell’economia nazionale, fatale che accada anche da noi.

A questo va aggiunto che tra crisi demografica e esplosione di fenomeni nuovi (come ad esempio al fitness per le fasce adulte) e stili di vita complessi, la competizione di altre discipline, prima ininfluente, abbia inciso molto per una tendenza che è costante negli anni verso la riduzione dei praticanti.

Ma si tratta di un discorso lungo e complesso da affrontare in un altro momento. Aggiungo per onestà intellettuale che sarebbe ingenuo, oltre che ingiusto, voler addebitare, oggi, a qualsiasi istituzione sportiva – non importa se nazionale o locale – il compito o la responsabilità di arrestare e invertire una tendenza di tali proporzioni.

Ciò non significa che non si possa fare nulla. Le strutture locali – in questo caso i Comitati Regionali – vivono da troppo tempo come se la crisi fosse questione estranea da osservare come se non ci riguardasse da vicino. Al contrario ai problemi si aggiungono alcune degenerazioni che aggiungono difficoltà alle difficoltà. Le assemblee quadriennali, da occasioni elettorali limitate nel tempo divengono una campagna elettorale permanente finendo per avvelenare il clima e condizionare tutto e tutti. In una logica dell’amico/nemico (mi hai votato/non mi hai votato) l’intero movimento vive di micro conflitti perenni che arrivano a condizionare dirigenti, accompagnatori, arbitri, presidenti di giuria e persino gli addetti alla vigilanza.

Nel frattempo mentre la crisi economica mette alle strette le società e le famiglie, gli abbandoni avvengono nel silenzio e non come una sconfitta collettiva da scongiurare o evitare.

Eppure anche senza risorse si potrebbe ancora fare molto. Rivolgersi in forma non episodica al mondo della scuola, ancora inesplorato e ricco di occasioni. Provarsi a promuovere la pratica sportiva attraverso le istituzioni locali, anch’esse alla affannosa ricerca di occasioni di visibilità. Per non parlare dei nuovi strumenti di comunicazione (i social network) paradossalmente frequentatissimi dai nostri iscritti, eppure fatalmente ignorati da una generazione cresciuta con le vecchie ‘Olivetti lettera 22’ (non è un’accusa, ovviamente, ma una constatazione).

E’ qui che i nostri vecchi Comitati regionali e i loro altrettanto vecchi Comitati di Settore, andrebbero riformati. Se non nelle strutture (dove comunque qualcosa andrebbe fatto), almeno nello spirito.

Per non fare come in quei racconti nei quali se una torta si dimezza, si finisce per tagliare fette più sottili da distribuire, invece di pensare a farla tornare più grande, nell’interesse di tutti.
IL RONIN – A.D.F.

 
 
Una disciplina sportiva vale quanto valgono gli arbitri che ne dirigono l’attività anche perché senza regole e senza arbitri che le facciano vivere non c’è, letteralmente, disciplina sportiva.

Per far questo occorre creare una classe arbitrale in grado di dare credibilità alla competizione sportiva.

L’arbitraggio, infatti, consiste nel verificare prima l’attitudine (propria) che permette di arbitrare il proprio figlio, il proprio amico o il proprio allievo senza favorirlo. né danneggiarlo.

Questa capacità deve prevedere un’alta qualità tecnica, ma anche grande qualità morale, senza le quali qualsiasi arbitro è destinato a perdere serenità e sicurezza.

In questa fattispecie possono esservi ottimi arbitri, naturalmente dotati di autorevolezza, velocità di giudizio, padronanza tecnica e arbitri inesperti ma moralmente dotati e, dunque, comunque destinati a diventare bravi arbitri

C’è poi la fattispecie di arbitro di scarsa personalità, di solito compiacente verso “le personalità” , che favorisce certi atleti danneggiando gli altri.

Tali arbitri sono il vero danno delle discipline che sono chiamati a dirigere. Talvolta sono persino dotati tecnicamente, e perciò ancora più censurabili, perché oltre a danneggiare l’intero movimento danneggiano atleti che si allenano duramente e che dovrebbero essere giudicati con serenità.

Evidentemente questi giudici/arbitri non hanno mai versato una stilla di sudore sopra un campo, una palestra, un tatami e non conoscono il valore morale dello sport e sicuramente nella vita civile fuori dello sport. Inaffidabili come cittadini, come arbitri e dunque come uomini.

Compito delle Federazioni è quello di rivolgere particolare attenzione a questo movimento e le commissioni che sono chiamate a istruire e a creare gli elenchi che solitamente sono divisi in regionali, nazionali e internazionali hanno il dovere di verificarne la capacità, l’onestà e la volontà di migliorarsi isolando e via via escludendo coloro che non riescono a migliorarsi o che non danno prova di rettitudine.

Il compito dovrebbe riguardare anche i comitati regionali che hanno il polso di tutti gli arbitri/giudici che lavorano in regione.

Sempre le qualificazioni per le finali nazionali passano attraverso il giudizio degli arbitri regionali e non mi è mai capitato di vedere i commissari che sono preposti a formare, correggere o sovvertire giudizi errati o addirittura falsati. Capisco che le aree di combattimento sono molte e una persona sola non può arrivare dappertutto, comunque non credo che un commissario di gara esperto e attento non si crei un giudizio su quelli cui è chiamato ad osservare e bisognerebbe impedire a coloro che non ne hanno la qualità di fare carriera coperti da dirigenti compiacenti.
 Ovviamente nelle finali nazionali dove la tecnologia dà un supporto i giudizi sono molto più aderenti (non sempre) a quanto si è visto sul tatami ma questo sistema deresponsabilizza in parte l’arbitro e nè limita la crescita ma penso che a visionare quanto è accaduto sarebbe diritto degli allenatori di essere chiamati senza diritto di commento davanti al monitor.

IL RONIN

A.D.F

 
 
Gran giorno domenica 6 aprile 2008 al palafijlkam di Ostia. In programma una gara di Judo per giovani Judoka(1). e stà per avere inzio la finale dei 45 kilogrammi del campionato regionale esordienti “b” valida per la qualificazione ai campionati nazionali. Sono ai bordi del tatami(2) Davide e Franco in attesa che l’arbitro li inviti a entrare sul quadrato di combattimento, Al cenno del direttore di gara entrano rigidi al loro posto ed effettuano il rituale “rei”(3) all’Hajime(4) si avvicinano per il combattimento e Davide allunga la mano per un piccola pacca di amicizia prima dell’incontro ma Franco ignora il gesto dell’avversario e si prepara ad effettuare “la presa” e inizia il combattimento con insolita aggressività di Franco che costringe Davide a una attenta difesa dopo qualche secondo l’arbitro sanziona Davide con un mulinello per scarsa combattività, koka(5) per Franco che conduce per tre punti judo. Questa sanzione induce Davide a prendere l’iniziativa e approfittando della insolita rigidità dell’avversario su un attacco di “O SOTO GARI”(6) squilibra l’avversario facendolo cadere. Yuko(7) Il combattimento prosegue con alterne tecniche e alla fine l’arbitro decreta la vittoria di Davide.
Il vincitore si avvicina all’avversario per abbracciarlo ma questi si gira uscendo dal tatami.
Dopo la premiazione Franco non degna di un saluto l’avversario e si allontana con il resto della squadra.
Davide e Franco frequentano la stessa scuola e la stessa classe, la terza media. Provengono dalla stessa scuola elementare e sono sempre stati insieme e sono grandi amici. Molto spesso hanno trascorso le ferie insieme con le famiglie e per merito loro anche queste sono diventate intime. Le mamme escono insieme per le compere e i papà si frequentano parlando di sport e di politica. I ragazzi hanno anche una passione in comune e frequentano il Judo in due diverse società. Da un po’ di tempo Davide nota che Franco non ama più parlare di judo e che evita ogni argomento che possa richiamare la loro comune passione, non sa darsene una ragione ma rispetta la decisione del compagno.
Lunedì 7 all’arrivo a scuola Davide aspetta il compagno all’ingresso per salutarlo e per chiedergli conto del suo strano comportamento ma questi si gira per allontanarsi e Davide cerca di fermarlo prendendolo per un braccio, a questo punto Franco si gira e sferra un pugno al viso di Davide.che stupefatto non riesce a reagire.
Al ritorno a casa con un evidente segno sul viso la mamma chiede:-Cosa è successo? Cosa hai fatto?- Davide non risponde e si ritira nella sua cameretta. Al rientro del padre, la mamma lo informa di quanto è successo e questi entra nella stanza del ragazzo, – Davide vuoi dirmi cosa ti è accaduto?-
-nulla-
– come nulla? Cosa è quel livido?- a questo punto Davide scoppia a piangere e racconta quanto è successo al genitore.
Rapida la telefonata con il padre di Franco ­– cosa è successo? Ne sai qualche cosa?
– Non ne so nulla ma tutto ieri, dopo la gara, Franco non ha aperto bocca tu che sai?
– so che c’è stato anche un pugno ma sono cose da ragazzi, ma non era mai accaduto prima.- attacca che ti faro sapere,
-Franco cosa è successo tra te e Davide?
– nulla.
– come nulla hai dato un pugno per nulla? Cosa ti ha fatto?
– nulla,
– ancora? Ancora nulla? Non sarà perchè hai perso la finale? – silenzio – il padre incalza – è per questo? Perché hai perso?- un lieve cenno di assenso a testa bassa.- e allora? A me sembra che Davide abbia vinto meritatamente e senza rubare nulla e allora perché tanta amarezza? Perché tanta rabbia?
– – E’ per il maestro – pausa – è da tanto che ci ripete che si può perdere con tutti meno che con quelli della palestra di Davide, non so perché ma non si deve perdere con quelli di quella Associazione. Nello spogliatoio mi ha umiliato davanti a tutti i compagni.
Telefonata di risposta:
– E’ stato per il combattimento, ma voglio andare a fondo di questa faccenda perchè c’è qualcosa che non mi convince.
– – anche io voglio capire e andrò a parlare con il maestro di Davide, ti faccio sapere.
La sera stessa in palestra di Franco – cosa è successo? Perché lo ha rimproverato?
– risposta – l’ho fatto perché voglio che siano decisi e perché voglio che diano tutto per vincere.
La sera stessa in palestra di Davide.
– Come può essere che ci sia tanto antagonismo da indurre due amici inseparabili a darsele dopo un incontro di Judo?
– – Cosa vuole che le dica? Non è la prima volta che sento queste cose, noi non abbiamo questo atteggiamento nei loro confronti anche perché è un errore tecnico caricare in questo modo un atleta e gli procura anche una paura, la paura di perdere, è sempre un errore un condizionamento negativo. Un ragazzo deve poter gareggiare senza alcun timore.vittoria o sconfitta non hanno importanza se si combatte bene.
Fine della Storia quasi vera. Franco ha smesso di fare Judo al contrario di Davide che ha continuato e che ha disputato la finale nazionale classificandosi al terzo posto.
Davide e Franco hanno fatto la pace e sono amici più di prima.

1) judoka colui che pratica il Judo
2) tatami materassina per praticare il Judo
3) rey rituale saluto in piedi o in ginocchio
4) hajime comando dell’arbitro che comanda l’inizio del combattimento
5) koka una sanzione che vale tre punti
6) o-soto-gari tecnica di Judo (grande falciata esterna)
7) yuko sanzione che vale 5 punti..

 
 
 
Ho imparato… che nessuno è  perfetto…
Finché non ti innamori.
Ho imparato… che la vita è  dura…
Ma io di più!!!
Ho imparato…che le opportunità non vanno mai perse.
Quelle che lasci andare tu..le prende qualcun altro.
Ho  imparato… che quando serbi rancore e amarezza la felicità va da un’altra 
parte.
Ho imparato..Che bisognerebbe sempre usare parole
buone…Perchè domani forse si dovranno rimangiare.
Ho  imparato… che un sorriso è un modo economico per migliorare il tuo 
aspetto.
Ho imparato..che non posso scegliere come mi sento…
Ma  posso sempre farci qualcosa.
Ho imparato… che quando tuo  figlio
appena nato tiene il tuo dito nel suo piccolo pugno… ti ha 
agganciato per la vita.
Ho imparato… che tutti vogliono vivere in  cima
alla montagna….Ma tutta la felicità e la crescita avvengono mentre 
la scali.
Ho imparato… che bisogna godersi il viaggio e non pensare 
solo alla meta.
Ho imparato…che è meglio dare consigli solo in  due
circostanze…Quando sono richiesti e quando ne dipende la 
vita.
Ho imparato…che meno tempo spreco…più cose faccio.
E’ la settimana dell’ amicizia …
Dimostra ai tuoi amici che ci tieni.
 
 
 
Capita spesso che gli allievi di un Maestro entrino  in conflitto con la Società di appartenenza e si pongono il problema di smettere  la pratica del Judo o di cambiare società.
Ritengo che sia saggio lasciarli andare dove,  probabilmente, si trovano bene o comunque tentino una nuova strada. 
Il volerli trattenere ad ogni costo pone un  problema, oltre che etico-morale, pratico. Le nostre discipline non brillano certamente per eccesso di affluenza e chi le pratica lo fà a proprie spese,  rubando spesso il tempo a cose certamente più divertenti, oltre che  gratuite.
I vincoli che la Federazione pone, servono  unicamente a impedire che Società con pochi scrupoli facciano incetta di atleti  altrui ma non certo per i conflitti che possono nascere all’ interno delle  Società stesse. Non siamo padroni nè dei corpi nè delle anime di coloro che si  affidano alle nostre cure ma abbiamo il dovere morale di favorirne le tendenze  oltre che insegnare loro una disciplina sportiva.